La campagna elettorale per il Parlamento
europeo è stata l'occasione per inflazionare nuovamente il termine "populismo",
come accusa di facile presa, a causa dell'incertezza e ambiguità della parola.
Per
il Fondo Monetario Internazionale sono "populisti" tutti coloro che
rifiutano le sue politiche economiche tendenti a creare disoccupazione, a comprimere
i consumi e a privatizzare i servizi pubblici. In questo senso, una espressione
che fa da sinonimo di populismo, e che risulta frequente nel lessico di fede
fondomonetarista, è quello di "resistenza corporativa".
Ma
con il termine "populismo" viene spesso etichettata anche una
politica tendente a screditare e delegittimare l'ordine costituzionale vigente
in nome di un presunto rapporto diretto con la volontà popolare. Giocando sui
due significati della parola "populismo", si può praticare un vero e
proprio opportunismo acrobatico, facendo contemporaneamente il tifo per il
Fondo Monetario Internazionale e per la "nostra bellissima
Costituzione".
Per questo secondo significato del termine
"populismo" già esisterebbe in effetti una definizione molto meno
equivoca e più precisa: golpismo strisciante. Tale definizione pare però
adattarsi perfettamente all'attuale esperienza di governo.
Si era detto che Bersani non poteva
governare poiché non aveva ricevuto abbastanza voti; in compenso oggi governa Renzi,
che di voti non ne ha avuto nessuno.
Renzi vorrebbe abolire l'attuale Senato,
sempre in nome di una volontà popolare di cui lui sarebbe il depositario, in
base a quelle mirabilie di attendibilità che sono i sondaggi e i post su
twitter.
Il golpista ovviamente non è Renzi in
persona, ma la lobby che lo controlla, e non c'è molto da indagare per scoprire
quale sia.
Il "Jobs Act" del governo Renzi
costituisce un buon esempio di come l'assistenzialismo a favore dei ricchi
riesca a camuffarsi di intenti sociali. L'espressione “Jobs Act” è stata rubata
alla propaganda di Obama, che nel 2011 spacciò come legge a favore
dell'occupazione la solita fumosa serie di provvedimenti un po' patetici, che
servono a nascondere il vero nocciolo della questione.
In questi "Jobs Act" l'unico
aspetto apparentemente concreto, riguarda le indennità di disoccupazione che
dovrebbero fare da filo conduttore tra un lavoro precario e l'altro. Si tratta
della vecchia idea lanciata dalla Organizzazione Internazionale del Lavoro -
una agenzia ONU - già da una decina d'anni, cioè la “flexsecurity”.
In Italia la "flexsecurity" è
stata spacciata come ponzata di questo o quel giuslavorista, mentre in realtà
si tratta di veline delle solite organizzazioni internazionali, a loro volta
controllate dalle note lobby.
Anche Renzi ha lanciato questo sussidio di
disoccupazione, con l'acronimo di Naspi, che dovrebbe sostituire la vecchia
cassa integrazione in deroga, e che si spaccia come salvagente del lavoratore
nel suo percorso da un'occupazione all'altra.
Le banche statunitensi sono state le prime
a capire quale gigantesco business finanziario potessero costituire queste indennità
di disoccupazione. Infatti vari Stati americani hanno da tempo sostituito il
tradizionale assegno con delle carte di credito prepagate (carta di debito),
dietro la giustificazione ufficiale che sarebbero più pratiche.
In realtà dopo un po' cominciano ad uscire
i problemi, cioè le esose commissioni riscosse dalle banche su tutti i
movimenti della carta di credito; ovviamente vi sono commissioni
particolarmente alte sugli scoperti, ma anche il lasciare la carta inutilizzata
per un po' di tempo comporta dei costi gravosi per l'utente. Il disoccupato
finisce così per versare la gran parte del proprio sussidio alle banche.
Così sono i ricchi a riscuotere
l'elemosina dai poveri.
Quando si parla di finanziarizzazione si
pensa automaticamente alle Borse e alle grandi speculazioni sui titoli azionari
e del debito pubblico.
Ma in effetti la finanziarizzazione va a
coprire ogni aspetto della vita sociale, dalla sanità, alla
previdenza, ai consumi, sino allo stesso
rapporto di lavoro, nel quale la continuità non è assicurata più dalla
stabilità dell'occupazione, ma dalla carta di credito che segue - e munge - il
lavoratore in ogni suo movimento.
Ormai è evidente da più di dieci anni che
la cosiddetta "flessibilità", cioè la precarizzazione, non aumenta la
produttività, ma, al contrario, tende drasticamente a diminuirla. In compenso,
la precarizzazione costituisce il principale veicolo della finanziarizzazione
del rapporto di lavoro.
L'impoverimento crescente del lavoratore
aumenta infatti la sua dipendenza dagli strumenti finanziari. La povertà non è
un malaugurato effetto collaterale, ma costituisce essa stessa un business.